La zia Sylvia e la chiesa spirituale.
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| Craig Warwick |
Dopo essersi raccontati tutte le novità delle loro vite, i miei genitori ne approfittarono per sfogarsi e le parlarono di me, delle mie stranezze, dei miei comportamenti che per loro erano inspiegabili. Cercavano aiuto nel prossimo, visto che ormai le avevano provate tutte, ma io non accennavo a cambiare. Si aspettavano una reazione scioccata dalla zia, come solitamente avveniva con le altre persone, ma lei si mise a ridere serenamente. Disse loro che non c'era nulla di cui preoccuparsi: non ero pazzo, ero semplicemente un sensitivo, come se fosse la cosa più naturale del mondo. Sapevo che stavano parlando di me, quindi ero accucciato sulle scale insieme a tutti i miei angeli. Rimasi stupito anch'io davanti alla reazione tranquilla e divertita della zia, ma lei chiarì tutto spiegando che da quattro anni stava seguendo dei corsi per diventare chiaroveggente. Ero felice, finalmente c'era qualcuno in famiglia che non mi considerava un pazzo o una minaccia. Avevo un appoggio e questo mi faceva sentire molto più sereno. Nei giorni della sua visita, io e mia zia legammo moltissimo. Lei non voleva mettere a tacere le voci, anzi, voleva coltivare il mio dono. Mi invitò, quindi, ad andare con lei alla performance di una delle chiaroveggenti più famose del Regno Unito, Doris Stokes, che era sua amica. Mi piacque moltissimo vedere questa piccola signora che comunicava con gli angeli e poi passava i loro messaggi a chi era seduto in platea. Sentivo di non essere solo. Questa donna stava utilizzando il suo dono per portare gioia e speranza nella vita del prossimo. Vederla interagire con angeli e umani come se fosse la cosa più naturale del mondo mi rincuorava. Ma non era finita lì: mia zia riuscì a portarmi dietro la quinte e conobbi la signora Stokes. Mi chiese se avessi mai letto uno dei suoi libri e le risposi di no, con sincerità. Prese un volume che stava poggiato sul tavolo del suo camerino e, dopo avermelo dedicato, me lo regalò. Ero al settimo cielo, e lo fui ancora di più quando mia zia, parlando con mio padre che ci aspettava a casa, gli disse che il mio dono andava coltivato. Decise, così, di portarmi in una chiesa spirituale a Lewisham, una parte di Londra che si trova a sud di Greenwich. Una chiesa spirituale è un posto dove le persone possono imparare a mettersi in contatto con gli spiriti. Nel Regno Unito ci sono molti di questi centri, ma io, sinceramente, non sapevo precisamente come funzionassero. Ricordo che era martedì. Era una sera tipicamente inglese: stava piovendo a dirotto e noi eravamo un po' in ritardo. Per questo motivo, oltre che per la paura di mettermi in gioco, ero un po' nervoso. La chiesa in cui entrammo, quella degli incontri, era normalissima: non aveva niente di particolare o evocativo. Prima di entrare nella stanza in cui dovevamo incontrarci, mia zia mi disse di nascosto: «Ricordati di dire che hai diciassette anni, in caso te lo chiedessero». Infatti a quindici anni non avrei potuto partecipare ai loro incontri, mentre la zia pensava che fossi già abbastanza maturo per andarci. Era tutto così elettrizzante: dover mentire sull'età e poter finalmente parlare liberamente degli angeli. Ci sedemmo in gruppi da quindici nella prima di quattro stanze, un luogo umido e maleodorante. Ero evidentemente il più piccolo della compagnia e mi rendevo conto che gli altri mi guardavano con diffidenza per questo motivo. Il capo del gruppo, Henry, colui che gestiva le riunioni, faceva cominciare gli incontri con un quarto d'ora di meditazione. Io non sapevo cosa volesse dire meditare, mi sembrava una cosa ridicola. Per questo motivo, ero l'unico che aveva tenuto gli occhi aperti durante il momento di raccoglimento. Finito questo momento, a turno, tutti dicevano cosa avevano visto: chi aveva visto un mazzo di fiori molto colorato, chi un soldato di guerra che cercava la sorella. Quando toccò a me, dissi che avevo visto una donna coi capelli rossi che ballava felice intorno alla stanza e diceva: «Bella». La ballerina si era, poi, avvicinata a una donna del nostro gruppo, le aveva dato un bacio sulla guancia e aveva ripetuto: «Bella», per poi sparire. Tutti sembravano indifferenti al mio racconto, ma improvvisamente la donna che era stata baciata dalla ballerina si mise a piangere di gioia. Quella che avevo visto era la madre, ci spiegò: era una danzatrice a Parigi e il suo nome d'arte era proprio Bella. Henry rimase molto colpito dalla mia visione e mi chiese di tornare al prossimo incontro. Stavolta, però, sarei passato al gruppo avanzato. Mia zia era felice e orgogliosa per me, e anch'io mi sentivo più forte del solito. Tornato a casa, mi accorsi che gli angeli non erano altrettanto contenti, anzi. Erano proprio arrabbiati e si rifiutavano di parlarmi. Dicevano che quello non era il modo giusto per me per imparare a perfezionare il mio dono. La mia strada l'avrei trovata da solo. Ma ormai l'appuntamento per il martedì successivo era già stato fissato e io mi stavo lasciando trasportare dall'entusiasmo della zia. Anche la volta successiva ebbi una visione che colpì nel segno. Davanti allo sconcerto e alla diffidenza del resto del gruppo, dissi di aver visto un capo indiano con il viso dipinto coi colori di guerra. Tutti risero di me quando raccontai di questa visione. A loro sembrava solo una fantasia ridicola inventata sul momento. Un uomo si spinse a dire: «Questo è quello che ti meriti per non avere chiuso gli occhi.» Ma Henry fermò subito il loro scherno e mi disse: «Bravo, da quando ho cominciato gli incontri della chiesa spirituale, nessuno era ancora riuscito a vedere il mio angelo custode. Si tratta proprio dell'indiano d'America che hai visto tu, Craig». Alla fine dell'incontro, Henry mi disse che le mie capacità andavano oltre quelle di un normale chiaroveggente. Ero un sensitivo, avevo tutti i sei sensi necessari per esserlo, ma avevo anche qualcosa in più. Era arrivato a capire che potevo vedere sia nel passato che nel futuro. Felice di avere qualcuno del genere nel suo gruppo, mi invitò calorosamente a tornare alla chiesa spirituale la settimana successiva. Ma io non ci andai. Avevo capito, grazie a mia zia e a questi incontri, che il mio era un dono da custodire e coltivare, ma dovevo lasciarlo libero di crescere liberamente, senza le maglie della chiesa spirituale. Inoltre gli altri compagni di meditazione non mi vedevano di buon occhio, sia perché ero molto giovane, sia perché le mie capacità molto più sviluppate delle loro li impaurivano e li mettevano a disagio. No, la chiesa spirituale non faceva per me, quindi non ci misi più piede. Fu solo dopo due settimane che gli angeli ricominciarono a parlarmi; per tutto il breve periodo in cui avevo frequentato la chiesa si erano mostrati a me soltanto visivamente, senza parlarmi o raccontarmi niente. Fu un brutto momento, mi sembrava di avere perso l'appoggio dei miei amici più cari e protettivi. Ciononostante sarò sempre grato a mia zia per avermici portato: è stata l'unica della mia famiglia a riconoscere e accettare il mio rapporto con gli angeli. Si può dire che grazie a quell'esperienza ho maturato un senso di indipendenza che mi avrebbe aiutato nelle scelte successive.
Dovevo andare per la mia strada, ne ero sicuro, anche a costo di soffrire e sentirmi solo. Potevano abbandonarmi tutti, ma gli angeli sarebbero rimasti al mio fianco.
Craig Warwick

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