La mia vita con gli angeli
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| L'uomo che parla con gli angeli |
La mia vita con gli angeli.
Era un tranquillo pomeriggio di primavera.
Il tempo era stato clemente quel giorno; nonostante ci trovassimo a Londra, era una bella giornata di sole, senza pioggia o nuvole minacciose. Avevo circa sei anni e me ne stavo seduto sullo scalino davanti alla porta di casa a giocare per conto mio. Il resto della famiglia era dentro, occupato con il solito trambusto quotidiano. D’altra parte siamo in undici! La mamma era in cucina insieme alle mie sorelle, le vedevo dalla finestra che dava sul cortile principale mentre preparavano un dolce. Sembrava tutto a posto, niente poteva turbare quella serenità. Improvvisamente quel manto di tranquillità venne strappato via. Sentii mia sorella Susan, la più grande tra le donne di casa, gridare disperata. Subito guardai dentro casa e vidi mia madre, Donna e Amanda continuare impassibili con le loro attività, come se non avessero sentito nulla. Ma non era finita lì: dopo pochi secondi, sentii mia sorella urlare di nuovo. Spaventatissimo, mi precipitai fuori dal nostro giardino, dietro la staccionata, da dove mi sembrava provenisse la sua voce.
Non si vedeva nessuno e sembrava che non fosse successo niente. C’erano solo i due bidoni della spazzatura all’angolo della strada. Siccome non riuscivo a spiegarmi cosa fosse accaduto, decisi di riempire gli spazi vuoti con l’immaginazione. Entrai in casa urlando: «Qualcuno ha portato via Susan!». Ovviamente le mie parole gettarono tutta la casa nel panico. Mia madre poggiò il vassoio con la torta che aveva appena finito di preparare e mi chiese: «Cosa stai dicendo, Craig? Cos’hai visto?». «Era laggiù, l’ho sentita urlare, era Susan!» ansimai indi- cando il punto da cui, secondo me, Susan aveva chiesto aiuto. Ma lì c’erano soltanto i sacchi della spazzatura. «Susan ha chiesto aiuto, stava gridando, forse si è fatta male!» dissi mentre mi scendevano le lacrime. Era frustrante: sapevo che c’era qualcosa di strano e inquietante, ma non sapevo spiegare cosa, né agli altri né a me stesso.
Mentre si guardava attorno per capire cosa fosse successo, mia madre si rasserenò un po’ e disse: «Non può essere Susan, è troppo presto! A quest’ora è ancora al lavoro». L’allarme sembrava già rientrato, almeno per gli altri, ma per sicurezza la mamma chiamò Susan al lavoro per sapere se era ancora lì e se andava tutto bene. Capii dalla conversazione che a Susan non era successo nulla, ma non riuscivo a calmarmi: ero sicuro di averla sentita urlare. Un po’ turbata, mia madre mi chiamò dentro: «Craig, lo sai che hai fatto spaventare tutti? Questi giochi non sono divertenti, non farli mai più, altrimenti la mamma si arrabbia».
Io, però, non stavo scherzando. E mi sentivo tremendamente in colpa.
Il giorno dopo, alla stessa ora, mi trovavo di nuovo fuori dalla porta di casa. Avevo dimenticato quello che era successo il giorno prima: i bambini, fortunatamente per loro, vivono nel presente e non danno molta importanza al passato. Ma le cose per me funzionavano diversamente, avrei dovuto capirlo subito. All’improvviso sentii un urlo, esattamente com’era già successo.
Era Susan, di nuovo! Spaventato, corsi verso i bidoni della spazzatura e vidi mia sorella che si teneva tra le mani il piede destro completamente macchiato di sangue. «Corri a chiamare aiuto!» mi disse piangendo. Entrai in casa e, al culmine dell’agitazione, gridai: «Susan è fuori, si è fatta male, è piena di sangue! Stavolta l’ho vista davvero!». Tutti corsero fuori ma, arrivati davanti ai bidoni della spazzatura, non videro nulla. Susan non c’era, proprio come il giorno prima. Stavolta la mamma non era semplicemente turbata: era proprio infuriata con me per lo spavento che le avevo causato. Visto che la sua ramanzina del giorno prima non era stata sufficiente, decise di raccontare a papà quello che era successo e lui mi mise in punizione per una settimana.
Accettai il castigo, sapevo anche di non poter fare altrimenti, ma in cuor mio sapevo anche di non aver detto una bugia. Avevo paura per Susan, era la mia sorella preferita. Quando tornò dal lavoro, quella sera, la abbracciai forte perché non volevo che le succedesse qualcosa di brutto.
L’urlo misterioso non aveva finito di tormentarmi, però. Mi ricordo chiaramente che era domenica perché mamma stava cucinando la mia cena preferita della settimana, il pollo arrosto. Tutto era tranquillo e sereno intorno a me. Mio padre lavava la macchina, i miei fratelli giocavano a pallone, la mia sorellina Donna correva col nostro cane. Susan era in casa e aiutava in cucina. Io ero seduto, come sempre, sul gradino davanti alla porta di casa quando Susan mi passò davanti con un sacco dell’immondizia. Mi accorsi subito che indossava il vestito che le avevo visto addosso nella mia visione, quando gridava per chiedere aiuto. Mi alzai per andare ad aiutarla a buttare la spazzatura ma, prima ancora che potessi raggiungerla, Susan urlò. E questa volta la sentirono tutti. L’urlo c’era stato, adesso ne ero certo, era reale. In un attimo mio padre saltò la staccionata e arrivò da lei.
Dietro di lui accorse tutta la famiglia, passando dal marciapiede che circondava il cortile. Solo io rimasi immobile dov’ero, in mezzo al giardino. Volevo aiutarla, volevo accertarmi che stesse bene, ma ero paralizzato dalla paura. Susan era lì, scioccata e in lacrime, che si teneva il piede sanguinante. Io vedevo la scena da dietro la staccionata e riuscivo a capire solo in parte ciò che stava succedendo. Mio padre, sconvolto, le chiese: «Che cosa ti è successo? Fammi vedere il piede!».
Susan, tra le lacrime e le smorfie di dolore, provò a spiegare: «Stavo buttando la spazzatura, ma quando ho aperto il bidone si è rotta una bottiglia e devo aver messo il piede sopra una scheggia». Mia madre era nel panico, ma papà manteneva la calma e le disse: «Corri, vai a chiamare un’ambulanza, dobbiamo portarla in ospedale». Stava perdendo troppo sangue e la scheggia poteva essere entrata in profondità. L’ambulanza arrivò in pochi minuti, insieme ai vicini, allarmati da tutto quel trambusto. Mia sorella venne portata al pronto soccorso, dove le tolsero il pezzo di vetro e le misero svariati punti. Ancora oggi Susan ha una cicatrice sul piede.
Quel segno sulla sua pelle è il ricordo di questa prima visione. È una memoria traumatica. Ma quando Susan tornò dall’ospedale, i miei non si arrabbiarono con me. Erano semplicemente sconvolti. Com’era possibile che un bambino di sei anni fosse riuscito a prevedere un fatto del genere? Non sapevano come affrontare la cosa e, per limitare i problemi almeno temporaneamente, mi dissero che ogni volta che avessi avuto una visione ne avrei dovuto parlare con loro prima che con chiunque altro. Credevano che in quel modo mi avrebbero aiutato a capire cosa stavo vedendo. Ripensandoci ora, nella loro testa dovevano immaginarmi come un bambino con qualche turba psicologica.
Voi cosa avreste pensato al posto di mia madre e di mio padre?
Craig Warwick
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